Nelle scorse settimane è emerso che è in atto un tentativo becero di aggirare la legge sul salario minimo approvata in votazione popolare nel 2015 e che entrerà in vigore a partire da dicembre di quest’anno. 

Obiettivo della legge è quello di imporre un salario minimo di tipo sociale, non un salario cioè che esprime il valore economico del lavoro prestato, ma che pone un limite al di là del quale si può tranquillamente parlare di povertà.
Fin da subito un gruppo di aziende ha posto ricorso contro questa legge. Non avendo ricevuto l’effetto sospensivo dal Tribunale Federale, sembra che abbiano deciso di risolvere il problema in modo diverso. 
Alcuni consulenti senza scrupoli hanno infatti pensato di aggirare la legge facendo leva su un suo articolo che prevede che possano essere applicati i salari minimi stabiliti in un contratto collettivo firmato da un sindacato, in rappresentanza dei dipendenti, e da un’associazione padronale, anche se inferiori ai riferimenti di legge.
Niente di più facile quindi che mettersi a tavolino a costruire un’associazione padronale e un sindacato nuovi di pacca. Peccato che un sindacato, e noi ce ne intendiamo con i nostri 100 anni di vita, sia qualcosa di diverso da un gruppetto interessato a tutto tranne che ai diritti degli associati che nemmeno consultano.
Il peccato in tutta questa storia è che a farne le spese sono le lavoratrici e i lavoratori di tre aziende, la Plastifil, la Ligo Electric e la Cebi, che erano speranzosi di poter ricevere un aumento entro la fine dell’anno. Ciò che si sono sentiti dire, nel corso di un’assemblea farsa alla presenza della direzione aziendale, è sostanzialmente «o accettate questi salari o delocalizziamo ». Si tratta di una minaccia bella e buona perché tra persone adulte un vero confronto, dove entrambe le parti hanno la stessa dignità, si svolge in modo ben diverso. Non ci è dato quindi di sapere, se la minaccia di delocalizzazione ha un qualche fondamento o poggia piuttosto su un orientamento aziendale che considera le lavoratrici e i lavoratori come la voce più facile sulla quale operare dei risparmi. Così come non ci è dato di sapere quanto incida davvero sui conti aziendali il pagamento
del salario minimo legale; del resto sei anni per prepararsi a questo cambiamento non sono pochi per un’azienda, di questi tempi. Sarà quindi vera responsabilità sociale quella di chi, pur di non delocalizzare, decide di pagare salari inferiori al minimo legale?
È invece con questo spirito che le stesse aziende, il loro legale e l’Associazione delle industrie ticinesi, negli anni che hanno seguito l’applicazione della legge, non hanno mai voluto confrontarsi in una reale trattativa con il sindacato per un ccl che prevedesse salari accettabili e condizioni di lavoro dignitose.
A chi ha chiesto nel corso di una delle assemblee di poter avere una copia scritta del contratto sul quale erano chiamati a votare, i sedicenti sindacalisti hanno bellamente risposto: «Se non c’è fiducia le cose
non iniziano bene». Oltre ai salari indegni proposti nel contratto, tutte le condizioni di lavoro sono penalizzanti e imposte dalla direzione, che non ha altro scopo se non di sfruttare le lavoratrici e i lavoratori continuando a pagare salari ridotti all’osso. È così che aziende come queste praticano dumping salariale e sociale.
A chi dice che le lavoratrici e i lavoratori frontalieri possono comunque vivere con le cifre loro offerte con grande generosità da questi lungimiranti direttori d’azienda, rispondiamo che fino a che ci saranno lavoratori di serie A e di serie B, fino a che le lavoratrici e i lavoratori saranno considerati un costo e non una preziosa risorsa, il nostro cantone non supererà il ritardo salariale con gli altri cantoni della Svizzera e i giovani con le loro preziose competenze non smetteranno di abbandonare il Ticino.
Il sindacato OCST non può stare a guardare e sta mettendo in atto tutto quanto possibile per invalidare questa operazione evidentemente orientata ad eludere, a danno di lavoratrici e lavoratori, una legge in vigore perché sostenuta a maggioranza dal popolo.