Ed ecco che anche quest’anno, prima delle vacanze, ci pregiamo di leggere ancora documenti che ci richiedono un commento più articolato del classico allarme per il caldo estivo. In effetti lo scorso 25 giugno è uscito il diciassettesimo rapporto dell’Osservatorio sulla libera circolazione delle persone.

Un rapporto nel quale, per la diciassettesima volta, laddove noi leggiamo dati preoccupanti, specialmente per il nostro cantone, gli autori si ostinano a fare emergere un giudizio favorevole dell’effetto che la libera circolazione avrebbe avuto in tutto il Paese. Per la diciassettesima volta ci troviamo a ripetere, inutilmente ostinati e sognatori come Don Chisciotte della Mancia quando lottava contro i mulini a vento, che i documenti come questi non andrebbero scritti con motivi o visioni politiche. Sarebbero invece pensati per orientare le decisioni politiche sulla base di analisi che provano almeno a rappresentare la realtà. E per la diciassettesima volta proviamo a spiegare la nostra visione, diversa da quella pubblicata su qualche domenicale che, per la diciassettesima volta, ci accusa anche quest’anno di esserci accorti solo oggi delle difficoltà che affliggono il nostro mercato del lavoro.
La nostra analisi è chiara da tempo: il nostro mercato del lavoro è popolato da due categorie di lavoratori: coloro che risiedono in Svizzera e coloro che risiedono all’estero. Dato che i salari di questi ultimi sono inferiori rispetto ai primi, sebbene il costo della vita sia paragonabile al resto della Svizzera, i salari in Ticino stanno calando e il numero di lavoratrici e lavoratori frontalieri ha raggiunto quasi il 30 percento degli occupati. C’è un evidente squilibrio che va governato.
Non siamo inclini a dividere il mondo in buoni e cattivi, come in certi film americani di supereroi, ma certo in questa situazione, c’è qualcuno che ci guadagna e qualcuno che ci perde. Qualcuno dice che a guadagnarci sono le lavoratrici e i lavoratori frontalieri, ma qui il rapporto è molto chiaro. In realtà questi subiscono una discriminazione salariale del 25% rispetto ai residenti. Sono pagati un quarto in meno dei residenti. È per questo che siamo stanchi di sentire che il problema sono i frontalieri. Il problema sono i datori di lavoro che offrono a chi vive all’estero condizioni di lavoro totalmente diverse. E come abbiamo sentito dire ad un nostro rappresentante al parlamento federale, con la deliziosa innocenza di un bimbo, «Quando un datore di lavoro ha la possibilità di risparmiare con gli stipendi, ne approfitta».
Nel rapporto è indicato che in Ticino c’è una percentuale più alta che in altre regioni di frontalieri privi di una formazione postobbligatoria, il 43%. Questa tuttavia non è una buona ragione per giustificare la differenza salariale. Il rapporto infatti cita alcune ricerche svolte in Ticino, ma non le più recenti, tra le quali quella di Bigotta e Giancone (settembre 2020) dalla quale si evince che negli anni analizzati, sebbene i salari delle lavoratrici e dei lavoratori frontalieri siano aumentati, questo aumento non copre la crescita delle competenze degli stessi in quel periodo. Inoltre nel nostro cantone - questo dato è registrato nel diciassettesimo rapporto sulla libera circolazione delle persone - l’11,9 percento della differenza salariale tra frontalieri e residenti non è spiegata, non dipende cioè dalla formazione o dall’anzianità. È dunque frutto di pura discriminazione.
Il rapporto allora, alla ricerca di una spiegazione politicamente accettabile, cerca di attribuire questa situazione all’esistenza in Ticino di un cluster di imprese che assumono fino al 95 percento di lavoratrici e lavoratori provenienti dall’estero e pagati sotto la media. Secondo il rapporto questo non dovrebbe influenzare i salari dei residenti. Come è possibile fare un’affermazione di questo tipo in un cantone nel quale i salari mediani sono quasi del 20% inferiori al resto della Svizzera?
Cito poi, sulla stessa lunghezza d’onda, una frase dalla conclusione che traduco dal testo in francese (pag. 102 ultimo paragrafo): «Di principio, delle differenze salariali elevate e inspiegabili possono indicare un eventuale comportamento discriminatorio da parte degli imprenditori. Non si potrebbe tuttavia tirare una conclusione diretta tra uno e l’altro, dato che l’ampiezza dello scarto salariale non spiegato è allo stesso modo influenzata da altri fattori non misurabili». Cioè, è così, ma, fidatevi, non può essere così.
Il rapporto evidenzia invece un aspetto interessante al quale sarebbe stato importante dare più peso. In tutti i settori nei quali sono attivi dei contratti collettivi di lavoro, la discriminazione salariale è più contenuta.
È qui che vorremmo giungere: non abbiamo bisogno che ci si dica che va tutto bene, perché non è così. Abbiamo bisogno di una chiave per affrontare la questione e provare a riequilibrare il sistema. E questa chiave è la contrattazione collettiva che pone tutti sullo stesso piano contenendo la discriminazione e l’atteggiamento del «perché dovrei pagarlo di più se posso non farlo?». Questa, e non una sterile guerra tra poveri, è la chiave per affrontare le difficoltà dei residenti alla ricerca di un posto di lavoro pagato almeno il necessario per affrontare il costo della vita in Ticino.

Renato Ricciardi