Estratto del videomessaggio di Papa Francesco durante la 109a Conferenza Internazionale del Lavoro (CIL) svoltasi online il 20 maggio e dal 3 al 19 giugno 2021. 

Durante la persistente crisi, dovremmo continuare a esercitare una «cura particolare» del bene comune. Molti degli sconvolgimenti possibili e previsti ancora non si sono manifestati, pertanto si richiederanno decisioni attente. La diminuzione delle ore di lavoro negli ultimi anni si è tradotta sia in perdita di posti di lavoro sia in una riduzione della giornata lavorativa. Molti servizi pubblici, come pure imprese, hanno dovuto far fronte a difficoltà tremende, alcuni correndo il rischio di fallimento totale o parziale.
Con la fretta di tornare a una maggiore attività economica, al termine della minaccia del Covid-19, evitiamo le passate fissazioni sul profitto, l’isolamento e il nazionalismo, il consumismo cieco e la negazione delle chiare evidenze che segnalano la discriminazione dei nostri fratelli e sorelle «scartabili» nella nostra società. Al contrario, ricerchiamo soluzioni che ci aiutino a costruire un nuovo futuro del lavoro fondato su condizioni lavorative decenti e dignitose, che provenga da una negoziazione collettiva, e che promuova il bene comune, una base che farà del lavoro una componente essenziale della nostra cura della società e della creazione.

Filosofia dello scarto
Siamo chiamati a dare priorità alla nostra risposta ai lavoratori che si trovano ai margini del mondo del lavoro; i lavoratori poco qualificati, i lavoratori a giornata, quelli del settore informale, i lavoratori migranti e rifugiati, quanti svolgono quello che si è soliti denominare «il lavoro delle tre dimensioni»: pericoloso, sporco e degradante, e l’elenco potrebbe andare avanti. Molti migranti e lavoratori vulnerabili, insieme alle loro famiglie, generalmente restano esclusi dall’accesso a programmi nazionali di promozione della salute, prevenzione delle malattie, cure e assistenza, come pure dai piani di protezione finanziaria e dai servizi psicosociali. È uno dei tanti casi di quella filosofia dello scarto che ci siamo abituati a imporre nelle nostre società.
In primo luogo, è missione fondamentale della Chiesa fare appello a tutti a lavorare congiuntamente, con i governi, le organizzazioni multilaterali e la società civile, per servire e prendersi cura del bene comune e garantire la partecipazione di tutti in questo impegno. Nessuno dovrebbe essere lasciato da parte in un dialogo per il bene comune. Questi dialoghi sono essenziali al fine di costruire un futuro solidale e sostenibile della nostra casa comune e dovrebbero tenersi a livello sia comunitario, sia nazionale che internazionale. E una delle caratteristiche del vero dialogo è che quanti dialogano siano sullo stesso piano di diritti e doveri.
In secondo luogo, è anche essenziale per la missione della Chiesa garantire che tutti ottengano la protezione di cui hanno bisogno a seconda delle loro vulnerabilità: malattia, età, disabilità, dislocamento, emarginazione o dipendenza. I sistemi di protezione sociale, che a loro volta stanno affrontando rischi importanti, devono essere sostenuti e ampliati per assicurare l’accesso ai servizi sanitari, all’alimentazione e ai bisogni umani di base. In tempi di emergenza, come la pandemia di Covid-19, si richiedono misure speciali di assistenza. Un’attenzione particolare alla prestazione integrale ed efficace di assistenza attraverso i servizi pubblici è a sua volta importante.
In questo momento di riflessione, in cui cerchiamo di modellare la nostra azione futura e di dare forma a un’agenda internazionale post-Covid-19, dovremmo prestare particolare attenzione al pericolo reale di dimenticare quanti sono rimasti indietro. Corrono il rischio di essere attaccati da un virus ancora peggiore del Covid-19: quello dell’indifferenza egoista.
Una minaccia la costituiscono le teorie che considerano il profitto e il consumo come elementi indipendenti o come variabili autonome della vita economica, escludendo i lavoratori e determinando il loro squilibrato standard di vita. L’attuale pandemia ci ha ricordato che non ci sono differenze né confini tra quanti soffrono. Siamo tutti fragili e, al tempo stesso, tutti di grande valore. È giunto il momento di eliminare le disuguaglianze, di curare l’ingiustizia che sta minando la salute dell’intera famiglia umana.

Intendere correttamente il lavoro
Il primo elemento per detta comprensione ci invita a focalizzare la necessaria attenzione su tutte le forme di lavoro, includendo le forme di impiego non standard. Il lavoro va al di là di ciò che tradizionalmente è conosciuto come «impiego formale» e il Programma di Lavoro Dignitoso deve includere tutte le forme di lavoro. La mancanza di protezione sociale dei lavoratori dell’economia informale e delle loro famiglie li rende particolarmente vulnerabili agli scontri, poiché non possono contare sulla protezione che offrono la previdenza sociale o i regimi di assistenza sociale destinati alla povertà. Le donne dell’economia informale, incluse le venditrici ambulanti e le collaboratrici domestiche, risentono dell’impatto del Covid-19 sotto diversi punti di vista: dall’isolamento all’esposizione estrema a rischi per la salute. Non disponendo di asili nido accessibili, i figli di queste lavoratrici sono esposti a un maggior rischio per la salute, perché le madri devono portarli sul posto di lavoro o lasciarli a casa incustoditi. Pertanto, è particolarmente necessario garantire che l’assistenza sociale giunga all’economia informale e presti speciale attenzione ai bisogni particolari delle donne.
La pandemia ci ricorda che molte donne di tutto il mondo continuano ad anelare alla libertà, alla giustizia e all’uguaglianza tra tutte le persone umane: «per quanto ci siano stati notevoli miglioramenti nel riconoscimento dei diritti della donna e nella sua partecipazione allo spazio pubblico, c’è ancora molto da crescere in alcuni paesi. Non sono ancora del tutto sradicati costumi inaccettabili. Anzitutto la vergognosa violenza che a volte si usa nei confronti delle donne, i maltrattamenti familiari e varie forme di schiavitù [...]. Penso alla [...] disuguaglianza dell’accesso a posti di lavoro dignitosi e ai luoghi in cui si prendono le decisioni» (Amoris laetitia, n. 54).
Il secondo elemento per una corretta comprensione del lavoro: se il lavoro è un rapporto, allora deve includere la dimensione della cura, perché nessun rapporto può sopravvivere senza cura. Qui non ci riferiamo solo al lavoro di assistenza: la pandemia ci ricorda la sua importanza fondamentale, che forse abbiamo trascurato. La cura va oltre, deve essere una dimensione di ogni lavoro. Un lavoro che non si prende cura, che distrugge la creazione, che mette in pericolo la sopravvivenza delle generazioni future, non è rispettoso della dignità dei lavoratori e non si può considerare dignitoso. Al contrario, un lavoro che si prende cura, contribuisce al ripristino della piena dignità umana, contribuirà ad assicurare un futuro sostenibile alle generazioni future. E in questa dimensione della cura rientrano, in primo luogo, i lavoratori. Ossia, una domanda che possiamo farci nel quotidiano: come un’impresa, immaginiamo, si prende cura dei suoi lavoratori?

Sviluppare la cultura della solidarietà
Oltre a una corretta comprensione del lavoro, uscire in condizioni migliori dalla crisi attuale richiederà lo sviluppo di una cultura della solidarietà, per contrastare la cultura dello scarto che è all’origine della disuguaglianza e che affligge il mondo. Per raggiungere questo obiettivo, occorrerà valorizzare l’apporto di tutte quelle culture. Ogni popolo ha una sua cultura, e credo che sia il momento di liberarci definitivamente dell’eredità dell’Illuminismo, che associava la parola cultura a un certo tipo di formazione intellettuale o di appartenenza sociale. Ogni popolo ha una sua cultura e noi dobbiamo accettarla così com’è.
La vostra responsabilità è grande, ma ancora più grande è il bene che potete ottenere. Gli attori stabiliti possono contare sull’eredità della loro storia, che continua a essere una risorsa di fondamentale importanza, ma in questa fase storica sono chiamati a restare aperti al dinamismo della società e a promuovere la comparsa e l’inclusione di attori meno tradizionali e più marginali, portatori di impulsi alternativi e innovatori.
Ricordo agli imprenditori la loro vera vocazione: produrre ricchezza al servizio di tutti. L’attività imprenditoriale è essenzialmente «una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti. Nei suoi disegni ogni persona è chiamata a promuovere il proprio sviluppo, e questo comprende l’attuazione delle capacità economiche e tecnologiche per far crescere i beni e aumentare la ricchezza. Tuttavia, in ogni caso, queste capacità degli imprenditori, dovrebbero essere orientate chiaramente al progresso delle altre persone e al superamento della miseria, specialmente attraverso la creazione di opportunità di lavoro diversificate. Sempre, insieme al diritto di proprietà privata, c’è il prioritario e precedente diritto della subordinazione di ogni proprietà privata alla destinazione universale dei beni della terra e, pertanto, il diritto di tutti al loro uso» (Fratelli tutti, n. 123). A volte, nel parlare di proprietà privata dimentichiamo che è un diritto secondario, che dipende da questo diritto primario, che è la destinazione universale dei beni.

Due sfide per il movimento sindacale
Invito i sindacalisti e i dirigenti delle associazioni dei lavoratori a non lasciarsi rinchiudere in una «camicia di forza», a focalizzarsi sulle situazioni concrete dei quartieri e delle comunità in cui operano, affrontando al tempo stesso questioni legate alle politiche economiche più vaste e alle «macro-relazioni». Anche in questa fase storica, il movimento sindacale ha di fronte due sfide importantissime.
La prima è la profezia, collegata alla natura stessa dei sindacati, alla loro vocazione più genuina. I sindacati sono un’espressione del profilo profetico della società. I sindacati nascono e rinascono ogni volta che, come i profeti biblici, danno voce a quanti non l’hanno, denunciano quelli che «venderebbero [...] il povero per un paio di sandali», come dice il profeta (cfr. Amos 2, 6), mettono a nudo i potenti che calpestano i diritti dei lavoratori più vulnerabili, difendono la causa degli stranieri, degli ultimi e dei rifiutati. Chiaro, quando un sindacato si corrompe, non può più farlo e si trasforma in uno status di pseudo datore di lavoro, a sua volta distanziato dal popolo.
La seconda sfida: l’innovazione. I profeti sono sentinelle che vigilano dal loro posto di osservazione. Anche i sindacati devono sorvegliare le mura della città del lavoro, come una guardia che sorveglia e protegge quanti sono dentro la città del lavoro, ma che sorveglia e protegge anche quelli che stanno fuori dalle mura. I sindacati non svolgono la loro funzione fondamentale d’innovazione sociale se tutelano solo i pensionati. Questo va fatto, ma è la metà del vostro lavoro. La vostra vocazione è anche di proteggere quanti ancora non hanno diritti, quanti sono esclusi dal lavoro e che sono esclusi anche dai diritti e dalla democrazia.

adattamento gad